Nell’era della comunicazione globale fake news e leggende metropolitane, soprattutto di carattere sanitario, si diffondono rapidamente e creano confusione. Dedichiamo questa pagina ai quesiti più frequenti da parte dei pazienti, con lo scopo di offrire loro un aiuto a distinguere tra informazioni supportate da basi scientifiche e non.
Per dose addizionale si intende una dose aggiuntiva di vaccino a completamento del ciclo vaccinale primario, somministrata al fine di raggiungere un adeguato livello di risposta immunitaria. La dose addizionale va somministrata dopo almeno 28 giorni dall’ultima dose.
Per dose “booster”, si intende una dose di richiamo dopo il completamento del ciclo vaccinale primario, a distanza di un determinato intervallo temporale, somministrata al fine di mantenere nel tempo o ripristinare un adeguato livello di risposta immunitaria, in particolare in popolazioni connotate da un alto rischio, per condizioni di fragilità che si associano allo sviluppo di malattia grave, o addirittura fatale, o per esposizione professionale. La dose “booster” va somministrata dopo almeno sei mesi dal completamento del ciclo vaccinale primario.
Sì. Tenuto conto delle attuali indicazioni espresse dalle principali autorità di Sanità Pubblica internazionali e relativi Comitati Consultivi e dei dati preliminari relativi alla co-somministrazione di vaccini anti-SARS-CoV-2/COVID-19 con vaccini antinfluenzali, è possibile programmare la somministrazione dei due vaccini, anti-influenzale e anti-SARS-Cov-2, nella medesima seduta vaccinale.
Nel momento in cui si fa la prima dose di vaccino il rischio di infezione è lo stesso di un non vaccinato, perché il sistema immunitario ha bisogno di un periodo di tempo di alcune settimane per dare luogo alla risposta. La risposta poi cresce e la protezione nel tempo aumenta fino a raggiungere il massimo circa 15-28 giorni dopo la seconda dose. La vaccinazione quindi non aumenta il rischio di contrarre la malattia in nessun momento.
La segnalazione di una qualsiasi reazione alla somministrazione del vaccino può essere fatta al proprio medico di famiglia o a qualunque altro operatore sanitario, secondo il sistema nazionale di farmacovigilanza vigente. Inoltre, chiunque può segnalare in prima persona una reazione avversa utilizzando una delle modalità indicate sul sito dell’Agenzia Italiana per il farmaco (AIFA).
II dati della farmaco-vigilanza sono pubblici: l’AIFA pubblica periodicamente il resoconto delle segnalazioni di sospetti eventi avversi (https://www.aifa.gov.it/farmacovigilanza-vaccini-covid-19).
I vaccini anti-COVID-19 non cambiano e non interagiscono in alcun modo con il DNA. Sia i vaccini a mRNA che quelli a vettore virale forniscono istruzioni alle nostre cellule utili ad attivare una risposta immunitaria così da proteggere contro il virus SARS-CoV-2.
Tutti i farmaci e i vaccini possono avere effetti collaterali. Le Agenzie regolatorie riportano queste due patologie, che peraltro sono anche tra quelle causate dall'infezione, come rari effetti avversi della vaccinazione. Proprio per la loro estrema rarità questi effetti lasciano comunque il rapporto benefici-rischi a favore dei primi, come rilevato da tutte le agenzie regolatorie internazionali.
I vaccini proteggono la persona vaccinata, ma se siamo in tanti a vaccinarci, potremmo ridurre la circolazione del virus e quindi proteggere anche le persone che non si vaccinano: la vaccinazione protegge chi si vaccina, ma contribuisce a proteggere anche la comunità in cui si vive.
Lo scopo degli studi registrativi era di valutare l’efficacia dei vaccini nel proteggere dalla malattia COVID-19. Gli studi per stabilire se le persone vaccinate, infettate in modo asintomatico, possano contagiare altre persone sono in corso. Poiché è possibile che, nonostante l’immunità protettiva, in qualche caso il virus possa persistere nascosto nella mucosa nasale, le persone vaccinate e quelle che sono in contatto con loro devono continuare ad adottare le misure di protezione anti-COVID-19.
La durata della protezione non è ancora definita con certezza perché fino ad ora il periodo di osservazione è stato necessariamente di pochi mesi, ma le conoscenze sugli altri tipi di coronavirus suggeriscono che dovrebbe essere di almeno 9-12 mesi.
Per certificazione verde si intende una certificazione comprovante uno dei seguenti stati:
La certificazione verde Covid-19 di avvenuta vaccinazione contro il SARS-CoV-2 viene rilasciata in formato cartaceo o digitale dalla struttura sanitaria o dal Servizio Sanitario Regionale di competenza. Al momento, la validità è dal quindicesimo giorno dopo la somministrazione della prima dose fino alla data prevista per il completamento del ciclo vaccinale (quando sono previste 2 dosi) e di nove mesi dal completamento del ciclo vaccinale.
La certificazione verde Covid-19 di avvenuta guarigione da COVID-19, viene rilasciata in formato cartaceo o digitale, contestualmente alla fine dell’isolamento, dalla struttura ospedaliera presso cui si è effettuato un ricovero, dalla ASL competente, dai medici di medicina generale o dai pediatri di libera scelta. Al momento, la validità è di sei mesi dalla data di fine isolamento.
La certificazione verde Covid-19 di effettuazione di un test antigenico rapido o molecolare per la ricerca del virus SARS-CoV-2 con esito negativo è rilasciata dalle strutture sanitarie pubbliche, private autorizzate, accreditate, dalle farmacie o dai medici di medicina generale e dai pediatri di libera scelta che erogano tali test. La validità della certificazione è di 48 ore dal prelievo del materiale biologico.
No. I certificati verdi sono rilasciati in ambito regionale e sono validi solo sul territorio nazionale e fino all’entrata in vigore del Digital Green Certificate, che verrà invece emesso da una piattaforma nazionale, alimentata con i dati trasmessi dalle Regioni, e conterrà un codice a barre bidimensionale (QRcode) per verificarne digitalmente l’autenticità e validità. Sarà necessario per muoversi in Unione Europea oltre a valere sul territorio nazionale per gli spostamenti e le attività per i quali è richiesta certificazione.
No, le misure di igiene vanno sempre rispettate, in quanto non può essere garantita la totale eliminazione del rischio di prima infezione nei vaccinati o di reinfezione nei guariti, anche a causa della circolazione delle varianti, né può essere escluso il rischio di trasmissione del virus. Ugualmente, non è escluso il rischio di prima infezione e, conseguentemente, il rischio di trasmissione in chi abbia un tampone negativo.
Pertanto, tutti i cittadini devono continuare a:
I primi dati confermano che tutti i vaccini attualmente disponibili in Italia sono efficaci contro la variante inglese del nuovo coronavirus (variante VOC 202012/01, nota anche come B.1.1.7). Sono al momento in corso studi per confermare l’efficacia dei vaccini anche sulle altre varianti.
La campagna di vaccinazione si svolgerà in più fasi: i cittadini saranno invitati ad effettuare la vaccinazione secondo un ordine di priorità definito dal rischio per le persone di infettarsi e di sviluppare la malattia con conseguenze gravi e dalla funzione sociale di alcune categorie professionali. Nella fase iniziale la vaccinazione è stata riservata al personale sanitario e al personale e agli ospiti delle residenze per anziani mentre è iniziata a febbraio la seconda fase del piano di vaccinazione con priorità scalari per le persone con gravi malattie e gli anziani sotto gli ottanta anni. Contemporaneamente è iniziata la vaccinazione del personale dei servizi sociali (forze dell'ordine e insegnanti).
Il Governo italiano, tramite le procedure europee, ha prenotato l’acquisto di oltre 200 milioni di dosi di vaccini anti-COVID-19 da sei diversi produttori ed ulteriori negoziazioni di acquisto sono attualmente in corso. Secondo lo schema di priorità definito nel Piano vaccini saranno vaccinate tutte le persone presenti sul territorio italiano, residenti, con o senza permesso di soggiorno ai sensi dell’articolo 35 del testo unico sull’immigrazione.
Uno studio mostra che la somministrazione farmacologica di quercetina, un flavonoide presente in alimenti come capperi, cipolle rosse e radicchio, potrebbe contrastare il coronavirus, inibendo una delle proteine fondamentali per la replicazione del virus. L’emergenza sanitaria ha spinto la comunità scientifica alla ricerca di trattamenti preventivi e terapeutici contro SARS-CoV-2. Uno dei bersagli farmacologici attualmente studiati per lo sviluppo di farmaci contro il virus è la 3CLpro, una proteina essenziale nel ciclo di replicazione virale. Nello studio pubblicato sull’International Journal of Biological Macromolecules gli autori, con uno screening molecolare in vitro, hanno analizzato una piccola libreria chimica di circa 150 composti. Per valutare la potenza in vitro dei composti selezionati attraverso lo screening sono state stimate le loro costanti di inibizione, applicando un apposito protocollo. La quercetina è stata identificata come possibile inibitore di SARS-CoV-2, essendo il composto più attivo in grado di interagire proprio con 3CLpro, legandosi al suo sito attivo e funzionando come un inibitore. È bene sottolineare che questo studio rappresenta solo un punto di partenza in una sperimentazione molto più lunga e che non si parla di quercetina assunta tramite l’alimentazione ma come farmaco. A nulla servirà quindi assumere quantità importanti di capperi e cipolle rosse, ma nuovi ed approfonditi studi dovranno essere condotti, in particolare sull’uomo per capirne a fondo gli effetti.
Lava frutta e verdura come faresti in qualsiasi altra circostanza. Ricorda che prima di toccare gli alimenti, è sempre buona norma lavare le mani con acqua e sapone. Quindi lava accuratamente frutta e verdura con acqua corrente, con l’accortezza di tenerle a bagno per alcuni minuti, soprattutto se intendi consumarle crude.
Secondo diversi organismi internazionali di sanità pubblica e sicurezza alimentare, tra cui il CDC e l'EFSA, al momento non ci sono prove che SARS-CoV-2 si sia diffuso attraverso alimenti o imballaggi alimentari. Anche nelle precedenti epidemie di coronavirus non sono emerse prove di diffusione attraverso alimenti o imballaggi. Un recente studio del 2018, infatti, ha evidenziato che i virus respiratori infettano in modo selettivo le cellule del sistema respiratorio. Quindi, alla luce delle attuali evidenze, non esistono rischi di infettarsi attraverso la manipolazione di imballaggi di alimenti. Non è necessario disinfettare i materiali di imballaggio degli alimenti, ma le mani devono essere sempre lavate con acqua e sapone dopo aver maneggiato le confezioni degli alimenti e prima di mangiare.
Una review che ha esaminato i dati attualmente esistenti sul ruolo dello stato nutrizionale e vitaminico nell’influenzare il decorso e l’esito di COVID-19 mostra che una compromissione dello stato nutrizionale può influenzare il decorso e l’esito della malattia. Per questo motivo la valutazione dello stato di nutrizione rappresenta un aspetto non trascurabile, da indagare in ogni paziente, proprio per le sue numerose implicazioni su decorso, gravità e risposta al trattamento, in modo da realizzare un intervento nutrizionale su misura. Malnutrizione per eccesso, per difetto e per carenza di micronutrienti costituiscono condizioni caratterizzate da un’alterazione della risposta immunitaria, sia immuno-mediata che cellulo-mediata, che a sua volta influenzerà il decorso della malattia. Ad esempio, sia la condizione di obesità che quella di grave sarcopenia sono caratterizzate da un basso grado di infiammazione cronica che può peggiorare in seguito all’infezione. È importante inoltre considerare che diverse condizioni cliniche spesso associate all’obesità, come la broncopneumopatia cronica ostruttiva, le malattie cardiovascolari, l’ipertensione ed il diabete sono fattori di rischio indipendenti per un più grave decorso della malattia in soggetti con COVID-19. Nel caso della malnutrizione per difetto, invece, la mancanza di tessuto adiposo come fonte di adipocitochine e la minore presenza di macrofagi e cellule T può causare alterazioni dell’immunometabolismo ed una riduzione della risposta protettiva. Anche la carenza di alcune vitamine e minerali ha un ruolo chiave nel decorso clinico dell’infezione da SARS-CoV-2, dato che numerosi micronutrienti sono coinvolti nella modulazione della risposta immunitaria ed antiossidante; è il caso di minerali come il selenio, il rame e lo zinco e di vitamine come la A, la C, la D e la E.
Recentemente i risultati di un altro studio hanno evidenziato l’importanza del mantenimento di uno stato nutrizionale ottimale e la necessità di prestare attenzione, particolarmente nei soggetti ad alto rischio di mortalità per infezione da SARS-CoV-2, a tre fattori nutrizionali: deficit di vitamina D, elevata assunzione di sale ed inappropriato consumo di alcol, poiché in grado di influenzare la risposta del sistema immunitario.
Quando un virus si replica o crea copie di sé stesso può andare incontro a leggere mutazioni: un virus con una o più nuove mutazioni viene indicato come una variante del virus originale. Finora sono state identificate nel mondo centinaia di varianti di SARS-CoV-2. L'OMS e la sua rete internazionale di esperti monitorano costantemente le modifiche in modo che, se vengono identificate mutazioni significative, sia possibile segnalare prontamente ai Paesi gli eventuali interventi da attuare per prevenire la diffusione di quella variante.
Non ci sarà libera scelta su quale vaccino preferire: il vaccino disponibile al tempo e al luogo sarà offerto dai servizi vaccinali in piena garanzia di equivalente sicurezza ed efficacia. La vaccinazione contro il SARS-CoV-2 è un diritto riconosciuto a tutti, tuttavia il rischio di contrarre il virus e di sviluppare la malattia in forma grave non è lo stesso per tutte le persone, e, attualmente, la disponibilità di dosi non è la stessa per tutti i vaccini. Per queste ragioni e per garantire la massima equità, è necessario seguire il piano strategico elaborato dal Ministero della Salute che tiene conto di tutte le esigenze e le condizioni.
La vaccinazione non contrasta con una precedente infezione o malattia COVID-19 (confermata da un test molecolare o antigenico di terza generazione) anzi potenzia la sua memoria immunitaria, per cui non è utile alcun test prima della vaccinazione. Tuttavia, coloro che hanno avuto una diagnosi di positività a COVID-19 non necessitano di una vaccinazione nella prima fase della campagna vaccinale, mentre potrebbe essere considerata quando si otterranno dati sulla durata della protezione immunitaria. Comunque non è necessario sottoporsi a test diagnostici per COVID-19 prima di accedere alla vaccinazione.
La persona con sospetta o accertata infezione COVID-19 deve stare lontana dagli altri familiari: se possibile, dovrebbe soggiornare in una stanza singola ben ventilata e non ricevere visite.
Queste sono solo alcune delle raccomandazioni contenute in una guida realizzata dall'ISS e riassunte in un poster scaricabile.
Per approfondire: Circolare ministeriale 30 novembre 2020 - Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2.
Le evidenze scientifiche al momento disponibili indicano che il tempo di sopravvivenza del virus vari in relazione al tipo di superficie considerata. Il rapporto dell'ISS riguardo le Raccomandazioni sulla sanificazione di strutture non sanitarie nell’attuale emergenza COVID-19 (superfici, ambienti interni e abbigliamento) e la circolare 22 maggio 2020 del Ministero della Salute riportano i tempi di rilevazione di particelle virali sulle superfici più comuni, variabili da alcune ore (come ad esempio sulla carta) fino a diversi giorni (come sulla plastica e l’acciaio inossidabile).
Tuttavia, bisogna considerare che i dati disponibili, essendo generati da condizioni sperimentali, devono essere interpretati con cautela, tenendo anche conto del fatto che la presenza di RNA virale non indica necessariamente che il virus sia vitale e potenzialmente infettivo.
L’utilizzo di semplici disinfettanti è in grado di uccidere il virus annullando la sua capacità di infettare le persone, per esempio disinfettanti contenenti alcol (etanolo) o ipoclorito di sodio (candeggina/varechina).
Ricorda di pulire gli oggetti che usi frequentemente (telefono cellulare, auricolari, microfono) prima con acqua e sapone o altri detergenti neutri e poi disinfettarli con prodotti a base di ipoclorito di sodio (candeggina/varechina) o etanolo (alcol), tenendo conto delle indicazioni fornite dal produttore.
L'ISS ha emanato un documento riguardante i DPI ed i dispositivi medici raccomandati per la prevenzione del contagio da SARS-CoV-2 in contesto lavorativo (operatori sanitari, addetti alle pulizie, tecnici di laboratorio, pazienti con/senza sintomi, accompagnatori, ambulanzieri etc.) e destinatari dell’indicazione. Consulta il documento Indicazioni ad interim per un utilizzo razionale delle protezioni per infezione da SARS-CoV-2 nelle attività sanitarie e sociosanitarie (assistenza a soggetti affetti da COVID-19) nell’attuale scenario emergenziale SARS-CoV-2.
Un'ampia percentuale della popolazione (fino al 15-20%) riferisce sintomi stagionali legati ai pollini, i più comuni dei quali includono congiuntivite, congestione nasale, naso che cola ed a volte starnuti ed eruzioni cutanee. Questi sintomi sono solitamente indicati come raffreddore da fieno, allergia al polline o più appropriatamente rinite allergica. La rinite allergica è comunemente associata all'asma allergica sia nei bambini che negli adulti.
Le forme allergiche più lievi, tra cui anche l'asma allergica lieve, non sono state identificate come uno dei principali fattori di rischio per l'infezione da SARS-CoV-2 o per un esito più sfavorevole negli studi finora disponibili. L'asma da moderata a grave, invece, in cui i pazienti hanno bisogno di cure giornaliere, è inclusa nelle condizioni polmonari croniche che predispongono a malattie gravi.
I bambini e gli adulti che assumono farmaci di mantenimento per l’asma (ad es. inibitori leucotrienici, corticosteroidi e/o broncodilatatori per via inalatoria) devono continuare il trattamento come prescritto dal medico. Nel caso dovessero sviluppare sintomi compatibili con COVID-19, dovranno auto-isolarsi, informare il medico e monitorare la loro salute come tutte le altre persone. Nel caso dovessero sviluppare una progressiva difficoltà respiratoria, dovranno richiedere una pronta assistenza medica.
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Attualmente sono disponibili i seguenti test:
Leggi la Nota tecnica ad interim. Test di laboratorio per SARS-CoV-2 e loro uso in sanità pubblica. Ministero della Salute - Istituto Superiore di Sanità
Allo stato attuale dell’evoluzione tecnologica, i test sierologici non possono sostituire i test diagnostici (molecolare o antigenico), in quanto evidenziano la presenza di anticorpi contro il virus e rilevano l’avvenuta esposizione a SARS-CoV-2, ma non sono in grado di confermare o meno un'infezione in atto. I test sierologici sono utili per una valutazione epidemiologica della circolazione virale, per stimare la diffusione dell’infezione in una comunità.
Tra le numerose fake news in circolazione, una sostiene che le bevande alcoliche possano aumentare l’immunità nei confronti di SARS-CoV-2. È vero invece l’opposto: l’alcol è un immunosoppressore ed il consumo di bevande alcoliche pregiudica il sistema immunitario e la risposta anticorpale, esponendo i consumatori a una maggiore vulnerabilità alle infezioni virali, soprattutto da virus respiratori e polmonari.
No, gli antibiotici non sono efficaci contro i virus, ma funzionano solo contro le infezioni batteriche.
Attualmente non esistono linee guida sull'integrazione di micronutrienti per la prevenzione di COVID-19. I micronutrienti sono fondamentali per il buon funzionamento del sistema immunitario. Ove possibile, l'assunzione di micronutrienti dovrebbe provenire da una dieta nutrizionalmente equilibrata e varia. Il nostro sistema immunitario è un sistema molto complesso, per il cui funzionamento sono necessari diversi micronutrienti, ciascuno con un suo ruolo. Ecco perché alimenti che contengono specifiche quantità di ferro, rame, selenio, zinco, vitamina A, vitamine del gruppo B e vitamina C contribuiscono al corretto funzionamento del sistema immunitario. Ciò è fondamentale, ma è ben diverso dall’affermare che alcuni alimenti o i micronutrienti in essi contenuti possano “potenziare” il sistema immunitario e quindi prevenire o curare alcune patologie.
Sebbene la gestione farmacologica rimanga il trattamento di prima linea, sono sempre più numerosi gli studi che sostengono l’importanza della dieta come coadiuvante nel migliorare lo sviluppo ed il decorso di alcune patologie respiratorie. Una review ha analizzato l’effetto di singoli nutrienti, pattern dietetici e fattori come il peso corporeo su alcune patologie come malattie allergiche, asma e broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO). I risultati hanno confermato la validità della dieta mediterranea: l’aderenza a questo modello nutrizionale diminuirebbe l’incidenza di atopia. Una dieta ricca di frutta e verdura, in tutte le fasi della vita, sembrerebbe avere un ruolo protettivo e sarebbe in grado di ridurre gli episodi di asma. Tali benefici derivanti dall’assunzione di cibo di origine vegetale potrebbero essere dovuti alla presenza di antiossidanti, che conferirebbero protezione alle vie aeree dallo stress ossidativo. I risultati circa la supplementazione sono, invece, controversi. Se ad esempio calcio e vitamina E hanno mostrato effetti positivi sulla dispnea infantile, non è altrettanto vero per la vitamina C. Un’altra review ha mostrato che la vitamina D avrebbe invece un ruolo fondamentale nel ridurre l’incidenza di infezioni respiratorie virali, ed un lavoro recente suggerisce che la somministrazione di alte dosi di vitamina D alle gestanti produrrebbe un effetto nella prevenzione di forme transitorie di infezioni respiratorie virali nel nascituro. Anche il peso corporeo è in grado di influenzare la salute respiratoria: una condizione di obesità determina infatti un peggioramento dello stato di salute generale dell’individuo e favorisce l’insorgenza di comorbidità, tra cui anche malattie dell’apparato respiratorio.
Conferme circa gli effetti protettivi del consumo di frutta e verdura emergono dai risultati di uno studio condotto su 44.335 uomini, di età compresa tra 45 e 79 anni, seguiti in media per 13 anni. Il consumo regolare, e secondo le indicazioni delle linee guida di questi alimenti (almeno 5 porzioni al giorno), ha infatti ridotto drasticamente (fino al 40%) il rischio di broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) sia nei fumatori che negli ex-fumatori. Analizzando separatamente il contributo preventivo di frutta e di verdura, emerge come il maggior consumo di frutta sia efficace sia nei fumatori che negli ex-fumatori, mentre il consumo elevato di verdura è più efficace nei fumatori, rispetto a chi non fuma più. I ricercatori hanno anche calcolato che ogni porzione di vegetali in più riduce il rischio di BPCO dell’8%: a risultare significativo in questo studio è soprattutto il consumo di mele, pere, peperoni e verdure a foglia rispetto ad altri tipi di frutta e verdura. Gli autori concludono sottolineando la necessità di sostenere le campagne per l’abbandono delle sigarette, ma anche l’opportunità preventiva offerta da un costante e sostenuto apporto di frutta e verdura, che si estende anche a chi ha smesso di fumare.
I vaccini per l’influenza stagionale sono studiati per proteggere contro l’infezione e la malattia causata dai virus influenzali che la comunità scientifica indica come i più probabili responsabili della stagione influenzale. I vaccini antinfluenzali NON proteggono, invece, da infezioni e malattie causate da altri virus che possono dare sintomi simili a quelli dell’influenza (le cosiddette sindromi para-influenzali). Durante la stagione influenzale circolano, infatti, molti altri virus: rinovirus (causa del “raffreddore comune”), virus respiratori sinciziali (causa più frequente di sindrome respiratoria grave nella prima infanzia e importante causa di morte da patologia respiratoria nei soggetti con 65 anni e più) ma anche i virus responsabili della cosiddetta influenza intestinale.
No: la vaccinazione antinfluenzale è raccomandata alle donne in qualsiasi fase della gravidanza, in quanto protegge sia la mamma, riducendo di almeno il 50% il rischio di ricovero, che il bambino, riducendo significativamente i casi di malattia e di otite nei primi due mesi di vita.
Uno studio pubblicato su Clinical Nutrition ha indagato il ruolo dell’olio extravergine di oliva sull’incidenza delle fratture dovute all’osteoporosi, identificando un’associazione tra il suo consumo ed un minor rischio di fratture in soggetti anziani e di mezza età ad alto rischio cardiovascolare. I risultati mostrano che un consumo giornaliero medio di 56 g di olio d’oliva è in grado di ridurre del 50% il rischio di fratture da osteoporosi in uomini e donne con più di 55 anni. Il dato emerge da un’analisi di parte dei dati raccolti dallo studio spagnolo PREDIMED (Prevencion Dieta Mediterranea), che ha coinvolto oltre 6mila persone e ha già fatto emergere i benefici di questo stile di alimentazione.
Il pattern alimentare, ed in particolare l’apporto di calcio e di proteine, influenzano la solidità strutturale dello scheletro, e quindi il rischio di osteoporosi e di fratture.
Uno studio osservazionale, condotto in Gran Bretagna nell’ambito del progetto EPIC, ha esaminato la relazione tra il tipo di alimentazione e la frequenza di fratture in varie sedi corporee durante un follow-up medio di 17 anni. Il principale risultato emerso è che i vegani sarebbero caratterizzati da un rischio di fratture totali aumentato di circa il 40% rispetto ai consumatori di carne o di pesce, mentre per i vegetariani l’aumento sarebbe minore, pari a circa l’11%. In termini assoluti queste differenze rappresentano un eccesso di 2 fratture per 1.000 persone/anno tra i vegani e di 0,4 fratture, sempre per 1.000 persone/anno, tra i vegetariani. Se si esaminano le sole fratture del bacino e degli arti inferiori, tra le più rilevanti clinicamente, il rischio dei vegani risulta raddoppiato rispetto a quello dei consumatori di carne. Il diverso apporto di calcio delle varie diete non sembra rilevante: nonostante i vegani assumano in media circa la metà del calcio giornaliero degli altri gruppi, l’aumento del rischio di fratture si osserva anche tra i vegani con un adeguato apporto di questo minerale. Analogamente poco rilevante si rivela il ruolo della quota di proteine. È ragionevole immaginare che il calcio assunto dai vegani sia caratterizzato da una minore biodisponibilità rispetto al calcio contenuto negli alimenti di origine animale; è inoltre possibile che l’elevato contenuto di fitati nelle diete ricche di vegetali possa comportare un’ulteriore riduzione dell’assorbimento del calcio stesso; la diversa capacità delle proteine di origine animale, o invece di origine vegetale, di stimolare il rilascio endogeno di IGF-1, un importante fattore di crescita, potrebbe pure tradursi in una diversa solidità scheletrica e quindi in una differente propensione alle fratture.
Le conclusioni del lavoro suggeriscono che i vegani siano caratterizzati da una maggiore probabilità di fratture, probabilmente conseguenza di una struttura ossea meno solida. Chi segue questo tipo di dieta dovrebbe quindi sottoporsi ad accertamenti periodici per valutare la propria densità ossea e prendere, eventualmente, le necessarie contromisure.
Un’alimentazione sana, caratterizzata da un elevato apporto di frutta e verdura, associata alla regolare attività fisica riduce il rischio di fragilità nelle donne con più di 60 anni. A suggerirlo è l’analisi dei dati ottenuti da un campione di oltre 78.000 donne di età ≥60 anni arruolate nel Nurses’ Health Study, lo studio di popolazione statunitense iniziato nel 1976 e condotto su una coorte di infermiere, alle quali sono stati somministrati periodicamente questionari per indagare stile di vita,abitudini alimentari e stato di salute nel tempo. Dopo 20 anni di follow-up è emerso che le donne che consumavano più di 7 porzioni al giorno di frutta e verdura mostravano un rischio più basso, rispetto a coloro che ne assumevano quotidianamente meno di 3, di incorrere in una diagnosi di fragilità (per il riscontro di almeno 3 delle seguenti condizioni: stanchezza o spossatezza, ridotta forza fisica, bassa capacità aerobica, significativa perdita di peso, presenza di almeno 5 malattie concomitanti). L’associazione con la riduzione del rischio era maggiore nelle donne fisicamente più attive e comunque indipendente dall’indice di massa corporea. Nelle donne che all’inizio dello studio non avevano riferito nessuno dei sintomi chiave della fragilità l’effetto protettivo era osservabile già a partire dalle 4 porzioni di frutta al giorno rispetto ai livelli di consumo più bassi. In particolare, il rischio di sviluppare fragilità si riduceva statisticamente all’aumentare del numero di porzioni di mele e pere, verdura a foglia e di ortaggi di colore giallo o arancione. Il lavoro mostra come per la popolazione più esposta al rischio di fragilità, quali le persone dopo i 60 anni, sia fondamentale mantenersi in forma praticando attività fisica ed attenersi a modelli dietetici caratterizzati da un elevato consumo di vegetali. Tra le persone che seguono queste indicazioni sono infatti elevati i livelli di assunzione dei componenti di questi alimenti (es. fibre, minerali, vitamine, antiossidanti etc.) che contribuiscono a contrastare lo stress ossidativo alla base dell’infiammazione sistemica e responsabile dell’invecchiamento precoce e dell’insorgenza di alcune patologie. I dati, inoltre, sono in linea con le raccomandazioni comuni alle linee guida nazionali e internazionali, che suggeriscono il consumo quotidiano di almeno 5 porzioni di frutta e verdura (la singola porzione di frutta corrisponde a 150 g, cioè un frutto di medie dimensioni, mentre una porzione di verdura/ortaggi corrisponde a 200 g; 80 g se consideriamo le verdure a foglia) in tutte le fasce d’età.
Poiché il termine “carne” è molto generico, vanno fatte alcune precisazioni, tenendo in considerazione molti fattori (tipologia di allevamento, provenienza, conservazione) che determinano la qualità del prodotto. Da migliaia di anni l’uomo consuma questo alimento, ma gli interrogativi sono nati recentemente in quanto oggi vi è un’alta disponibilità di prodotto, spesso di scarsa qualità e conservato con metodi non sempre salutari per le pareti del nostro stomaco e del nostro intestino (affumicatura, salatura, stagionatura, aggiunta di conservanti chimici). Inoltre, data la forte richiesta, i grandi produttori hanno sostituito l’allevamento allo stato brado con allevamenti intensivi, dove tra i vari mangimi vi potrebbero essere anche tracce di sostanze non permesse quali antibiotici (per evitare che il bestiame si ammali) ed ormoni (per stimolarne la crescita), nocivi per la nostra salute.
Per ciò che concerne i dati emersi dagli studi effettuati sul rapporto tra consumo di carne e tumori, l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) ha inserito le carni processate (carne in scatola, insaccati e affettati, wurstel) nella lista dei cancerogeni certi (che comprende anche l’amianto, l’alcol etilico e il fumo, le radiazioni ultraviolette e il Papilloma virus). La causa di ciò è da attribuire soprattutto ai prodotti utilizzati per la conservazione, ossia il mix di nitriti, nitrati e sale, che favorirebbero lo sviluppo di nitrosammine, definite dall’ente americano Food and Drug Administration (FDA) come “uno dei più potenti gruppi di sostanze cancerogene mai scoperto”. Attraverso l’analisi di studi epidemiologici, l’assunzione di 50g di carne processata al giorno aumenterebbe il rischio di sviluppare il tumore del colon-retto. Ma è stato trovato anche un legame con il rischio di sviluppare tumore del pancreas, dello stomaco e della prostata.
Le carni rosse (manzo, maiale, vitello, selvaggina) sono state invece inserite tra le sostanze probabilmente cancerogene per l’uomo; il rischio è più alto in chi ha una dieta povera di fibre vegetali provenienti da cereali, verdura e frutta. A tal proposito, il Fondo Mondiale per la Ricerca sul Cancro (WCRF) raccomanda di non consumare più di 500g di carne rossa alla settimana, per chi è già ammalato si consiglia invece di non superare i 300g alla settimana.
Questi dati vanno comunque interpretati con cautela, visto che non sempre viene tenuta in considerazione la qualità e le modalità di allevamento di tali carni, oltre che i metodi di cottura e condimento che potrebbero influire profondamente sui risultati. Non è stato osservato un rischio da consumo di carni bianche né di pesce, che, anzi, in alcuni studi è risultato essere protettivo.
Il consiglio quindi è che non vi deve essere nessun allarmismo al riguardo, ma sarebbe opportuno prendere le giuste precauzioni sul consumo indiscriminato di tali prodotti. Innanzitutto, puntare sulla qualità della carne, che dovrà essere certificata (preferibilmente biologica).
La carne bianca (pollo, tacchino, coniglio) dovrà essere assunta circa 2 volte alla settimana, mentre la carne rossa dovrà essere consumata con maggiore moderazione, non superando i 200-300g alla settimana.
La carne trasformata invece andrebbe esclusa dall’alimentazione quotidiana, ma se proprio deve essere consumata lo si deve fare solo occasionalmente, preferendo una buona qualità di prosciutto crudo o di bresaola, acquistati freschi al bancone (non confezionati in busta), in una porzione non superiore ai 50g.
Infine, quando si consuma la carne è consigliabile abbinarla alla verdura e alla frutta per tenere pulite le pareti del nostro apparto digerente, cucinandola con metodi di cottura semplici (piastra, vapore, forno, ecc.) ed evitando cotture alla brace o prolungate, in quanto potrebbero produrre composti quali gli idrocarburi policiclici aromatici e le ammine eterocicliche, che sono potenziali agenti cancerogeni.
Il glucosio, la molecola base derivante dalla digestione degli zuccheri, è il principale nutrimento per le cellule (di conseguenza anche di quelle tumorali). La sua assunzione fa salire velocemente i livelli di insulina nel sangue e quando questo ormone viene liberato in grandi quantità, promuove la produzione del fattore di crescita cellulare IGF-1 e, nelle donne, del testosterone che è un importante fattore di rischio soprattutto per il tumore della mammella. Il consumo eccessivo di zuccheri è anche associato ad un aumento di peso corporeo (trasformazione a livello epatico degli zuccheri in eccesso in grassi da conservare sotto forma di riserva energetica) e quindi ad una predisposizione maggiore allo sviluppo di obesità, che sappiamo essere uno dei fattori di rischio maggiori per la predisposizione a diverse tipologie di tumore.
Va però detto che non tutti gli zuccheri sono uguali e ciò che fa veramente la differenza è il carico glicemico degli alimenti, ossia un fattore che tiene conto sia della velocità di assorbimento che della quantità del carboidrato assunto.
Gli zuccheri che sono dunque da limitare sono quelli a rapido assorbimento, che determinano maggiori variazioni glicemiche (zuccheri aggiunti, zucchero bianco o di canna, cereali da colazione, sciroppo di glucosio, bibite zuccherate, dolciumi, brioches, biscotti, prodotti da pasticceria, caramelle, creme spalmabili, ecc.).
Anche la frutta è costituita prevalentemente da uno zucchero semplice (fruttosio), ma è composta anche da fibre, vitamine e sali minerali, che ne rallentano l’assorbimento e che quindi nelle giuste porzioni (2 al giorno) può essere tranquillamente assunta.
Altre fonti di zuccheri come i cereali ed i loro derivati (pasta, pane, riso, farro, kamut, ecc.) ed i legumi sono detti complessi, in quanto per essere assorbiti necessitano di una digestione più lunga e quindi hanno un impatto minore sui livelli di glicemia, soprattutto se assunti di qualità integrale ed abbinati a fibre (verdure), a proteine (carne magra, pesce, uova, ecc.) o a grassi (olio di oliva, frutta secca, ecc.).
Il modello della dieta mediterranea è quello maggiormente supportato da dati clinici favorevoli. Da una revisione sistematica della letteratura scientifica è emersa un'associazione inversa tra l'aderenza alla dieta mediterranea e la mortalità complessiva correlata al cancro, con un rischio minore di sviluppare diversi tipi di tumore, tra cui quello del seno, del colon-retto, dello stomaco, della prostata, del fegato, del testa-collo, del pancreas e del polmone. Inoltre, è stata osservata una ridotta incidenza e mortalità di malattie cardiovascolari, Parkinson e Alzheimer.
La dieta mediterranea non tiene conto soltanto degli alimenti ma anche della pratica di una regolare attività fisica, di un adeguato riposo e del ruolo conviviale dei pasti. Inoltre risulta importante tenere in considerazione la biodiversità e la stagionalità dei cibi, il rispetto delle tradizioni locali e della sostenibilità ambientale.
Per ciò che concerne gli alimenti, la dieta mediterranea è basata prevalentemente su cibi di origine vegetale e sull’autenticità dei prodotti (dieta “povera”).
L’indicazione è quindi di consumare:
Altri alimenti che potrebbero essere integrati perché si sono rilevati avere degli effetti benefici sullo stato di salute sono il thè verde ed il cioccolato fondente con una percentuale di cacao superiore al 70%.
Utilizzare metodi di cottura semplici e veloci, come lessatura, al vapore, alla piastra, al cartoccio, al microonde, utilizzando pentole antiaderenti (evitando di grattarne il fondo) e pentole a pressione. Evitare i soffritti ed i fritti, facendo attenzione a non cuocere l'olio per troppo tempo e ad alte temperature. Limitare le preparazioni alla brace e le cotture prolungate, evitando il contatto diretto della fiamma con l’alimento.
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Ultimo aggiornamento: 27 Febbraio 2024
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